Ventotene Alla scoperta del Basso Lazio in Brompton pedalando tra archeologia, storia e natura

MARIA GABRIELLA BERTI

Tre giorni di cicloturismo con Zio Bici per raggiungere l’isola di Ventotene e godere della sua magia.

Da Roma Termini, piegate le bici, abbiamo raggiunto in treno Fondi, la città dei Volsci, incorniciata dai monti Ausoni.

Abbagliati dal sole, pedalando sul basolato del quartiere chiamato La Giudea, abbiamo raggiunto la Casa degli Spiriti, teatro di oscure e terribili vicende, assalti, omicidi, sparizioni e quanto più il mescolarsi di storia e leggenda sono in grado di offrire all’immaginazione. Poi il castello baronale col suo torrione cilindrico dalla struttura difensiva imponente e poderosa.

Lasciata Fondi, presa l’Appia Antica, ci siamo diretti verso il Sud, affrontando l’asfalto della ciclabile, lo sterrato irregolare ed il basolato. A volte scendendo dal sellino per affrontare i punti più critici.

Mentre le piccole ruote aggredivano il basolato, al refrain dello sferragliare delle biciclette, pensavo che se le pietre avessero potuto parlare, certamente avrebbero raccontato tante storie: a partire dal 312 a.C. la scelta del tracciato, il taglio delle rocce, la realizzazione dei ponti nelle valli più impervie. Avrebbero riferito della marcia delle legioni romane, del passaggio dei pellegrini e dei mercanti diretti in Oriente e degli agguati dei briganti.

Il pedalare, anche se con po’ di fatica, sulla regina viarum, che ha determinato il destino di intere popolazioni, mi ha emozionato. È una strada straordinaria, che nel Parco Naturale dei Monti Aurunci, si snoda lungo una stretta valle circondata da rocce di calcare e piante della macchia mediterranea.

Alla gola di Sant’Andrea, dove una targa ricorda il brigante-patriota Michele Pezza, ben più noto come Fra’ Diavolo, ci siamo fermati per uno spuntino, prima di affrontare la salita del valico di Itri, che oggi è nel Lazio meridionale, mentre in passato apparteneva al Regno di Napoli.

Dopo una bella discesa abbiamo raggiunto Itri, percorrendo la Via Francigena del Sud. Il nome di Itri deriverebbe da iter, per la sua posizione lungo la Via Appia. Secondo altre testimonianze questa denominazione sarebbe invece legata al culto del dio Mitra.

In questo paese, situato a poca distanza dal mare, ma seminascosto dai monti Aurunci, abbiamo visitato il museo del Brigantaggio dedicato anche al suo concittadino Fra’ Diavolo, ivi nato il 10 aprile 1771. Nel museo sono rappresentati aspetti molto importanti della difficile epoca in cui venne costituito lo stato unitario italiano. La repressione delle truppe regolari sabaude fu forse più cruenta delle azioni degli stessi briganti che esprimevano un disagio profondo di intere regioni, depresse e emarginate, all’indomani dell’unità d’Italia. La visita mi ha fatto risuonare nella mente una bella ballata popolare che avevo sentito in Basilicata, Brigante se more.

Recuperate le forze con una buona dose di zeppole itrane, ci siamo messi in sella e abbiamo raggiunto Formia. I segni di distruzioni, dei saraceni prima e dell’ultima guerra poi, questi ancora evidenti, non hanno cancellato l’impianto romano della città.

Pedalando sull’Appia Antica siamo passati davanti ad un mausoleo monumentale di epoca imperiale ritenuto il sepolcro di Marco Tullio Cicerone. Sorge vicino alla villa dove lo scrittore e statista romano era solito trascorrere le sue vacanze e vi morì nel 43 d.C.

Al tramonto, siamo riusciti a fare un bagno di fronte al promontorio di Gaeta e a visitare il Cisternone romano che è stato riscoperto, agli inizi degli anni 2000, dopo anni di ricerche ed un intenso lavoro per svuotare il sito dai liquami e dalla terra che lo avevano ricoperto e nascosto.

La mattina dopo, caricate le nostre bici a bordo del traghetto, siamo salpati per Pandataria, dispensatrice di ogni bene, antico nome di Ventotene.

Abbiamo raggiunto, in una traversata di due ore, l’isola delle sirene, narrata, almeno così si dice, da Omero nell’Odissea.

Dalla banchina del Porto Nuovo ci si è presentato lo straordinario spettacolo del Porto Antico o Porto Romano, interamente intagliato nel tufo. È la prima sorpresa di questa isola.

Al Porto Romano abbiamo ripreso il mare per il periplo, in barca a vela, dell’isola. Accarezzati dal sole e dal vento, cullati dalle onde, respirando a pieni polmoni il salmastro, abbiamo potuto ammirare la costa e scoprire spiagge, prospettive, scorci e calette.

Abbiamo visto, peccato solo da lontano, anche l’Isola di San Stefano. Come il resto dell’arcipelago pontino o ponziano, l’isola di Santo Stefano ha origine vulcanica ed ha una forma circolare. Le sue scogliere ripide hanno sempre reso difficile l’approdo, possibile solo in quattro punti da scegliere a seconda dei venti. Forse per questo è stata destinata a una delle più antiche strutture carcerarie. È stata costruita nel 1795 secondo i principi del “panopticon”, cioè “che fa vedere tutto”, enunciati dal filosofo Jeremy Bentham: ogni carcerato non sapeva se e quando il guardiano della prigione lo stesse guardando. L’Ergastolo di Santo Stefano, come era chiamato il carcere, è ormai in disuso ma ha ospitato oppositori politici e non solo di varie epoche: da Gaetano Bresci, l’anarchico attentatore di re Umberto I, a Sante Pollastri, quello de Il bandito e il campione, la canzone di De Gregori, fino a Sandro Pertini, rinchiuso qui dai fascisti prima di diventare uno dei più amati presidenti della Repubblica.

Portate dal vento mi è sembrato di sentire le discussioni di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi che, al confino nell’isola di Ventotene, hanno generato nel 1941 lo storico Manifesto di Ventotene, il primo documento fondate dell’Europa Unita, diffuso grazie ad alcune donne che lo portarono sul continente.

Tornati sull’isola principale e riprese le biciclette, i cui raggi scintillavano ad un sole africano, ci siamo tuffati nel mondo antico: abbiamo raggiunto e visitato la Cisterna dei carcerati che, da semplice contenitore d’acqua, era diventata luogo, prima di salvezza e poi di prigionia. Scritte, pitture murali, disegni e grafiti sulle pareti ne testimoniano l’utilizzo da parte dei monaci, dei cittadini per sfuggire alle incursioni dei pirati, degli animali e dei prigionieri.

La Cisterna, insieme a un’altra ancora esistente, faceva parte di un sistema idrico per l’approvvigionamento dell’acqua potabile, realizzato dagli romani nella parte meridionale del territorio isolano per la raccolta delle acque piovane, in mancanza di una falda acquifera.

La giornata si è conclusa nella Foresteria della Lega Navale, posta nel punto più alto dell’isola, dopo una cena a base di pesce, musica dalla sonorità giudaico-spagnole e yiddish e un’ultima pedalata sotto un cielo stellato.

Il rivivere paesaggi, pietre, polvere, colori e suoni, mare, vento mi ha accompagnata al sonno.

Di buon mattino siamo risaliti in sella per scendere verso il mare, per visitare Villa Giulia. Pedalando in fila indiana, al caldo del sole e al profumo dei limoni non colti, siamo passati per piazza del Confino Politico, dove un monumento testimonia la prigionia dei dissidenti politici durante il regime fascista e una targa ricorda il sindacalista Giuseppe Di Vittorio. Villa Giulia mescola il fascino della vicenda di una donna esiliata dal padre, l’imperatore Augusto, con uno dei panorami più belli dell’Isola. Dai resti della villa si riconoscono cortili, stanze, corridoi, giardini, cisterne, terme. Buona parte della villa era realizzata in opus reticulatum, con il caratteristico reticolo regolare disposto in diagonale. Una scalinata scavata nella roccia permetteva di arrivare fino al mare.

Ripreso il traghetto per Formia, al calar della sera quando forme, colori e rilievi di Ventotene si stavano spegnendo, un senso di felicità mi ha colto: era proprio lì che volevo andare, lontana dal caos e dai rumori cittadini, dove il tempo sembra che si sia fermato.